Lucidi vaneggiamenti

Una volta avevo un paio di occhiali magici.
Mi consentivano di vedere dentro le cose.

Non vedevo gli uomini in mutande, non attraversavo i muri con lo sguardo. Semplicemente vedevo dentro le cose: meccanismi, ruote dentate, ingranaggi.
Vedevo per esempio il gheriglio della noce, il vino nella bottiglia, le parole dentro ai quaderni.
E vedevo pure le intenzioni, e capivo se erano buone o cattive.
Avevo avuto gli occhiali magici, in cambio di un panino col salame, da uno zingaro dell'est dall'aspetto singolare: un po' gobbo, un po' zoppo, un po' sordo, un po' vecchio, un po' basso; un po'.
Aveva la bocca storta che gli attraversava la faccia come un ponte teso tra il sorriso e il dolore. Parlava poco ma sputava molto, una volta a destra, una volta a sinistra.

Erano degli occhiali meravigliosi: esteticamente orripilanti, ma funzionali.
Adesso non li ho più. Si sono rotti. E mi sento perduta.

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